Non è certo una coincidenza.

Nel corso degli anni sessanta, proprio quando lo sviluppo della stampa offset è al suo apice, la pop art richiama in vari modi la carta stampata a colori.

Il retino da stampa, quell’insieme di punti che nasce direttamente dall’intuizione dei pittori neoimpressionisti, diviene un elemento grafico ricorrente, dalle copertine dei dischi, alle copertine di libri, ai poster pubblicitari, insomma tanti grafici e tanti artisti si sono confrontati con la “rosetta” che forma la quadricromia quando la si osserva ingrandita.

Tra le numerose opere una in particolare è molto significativa.

Nel 1964 l’artita francese Alain Jacquet, realizza un quadro che si rifà al celebre Le Déjeuner sur l’Herbe di Edouard Manet.

1964 – Alain Jacquet

Ciò che appare evidente è il linguaggio che utilizza: ingrandisce in modo esasperato il retino della quadricromia e ogni puntino pare una pennellata, proprio simile a quella dei pittori neoimpressionisti.

particolare dal dipinto di Georges Seurat

Ma si tratta di una stampa, nel vero spirito dei pop-artisti, Alain Jacquet usa una tecnica di riproduzione meccanica e non usa di certo un pennello.

Rielaborando l’immagine attraverso un processo di retinatura, Jacquet ottiene un’opera di cui realizzerà oltre duecento esemplari, su carta e su tela. Questa verrà considerata la prima operazione pittorica “fotomeccanica” e, per la prima volta, si usa il termine “mec-art”.

Il significato di quest’opera è complesso e che tocca tutti i temi cari ai pop-artist: ironia, messa in discussione del linguaggio pubblicitario e consumistico, superamento del concetto di opera unica.

Secondo l’autore è il “punto di partenza di un’operazione di ristrutturazione interna dell’immagine e quindi della visione. Il retino fotografico, con le su grane differenti, più o meno fini, più o meno dense, confonde la visione dell’immagine per ristrutturarla altrimenti: il suo segreto è labirintico; ci vorrà sempre un retino per decifrare i linguaggi cifrati, i rituali esoterici e i tabù sociali di cui è piena la vita di ogni uomo…”

Molto più semplicemente ciò che qui mi interessa evidenziare è l’aspetto iconografico. Infatti in questo caso il retino di stampa diventa l’elemento caratterizzante di un’opera di dimensioni imponenti, museali, ma il suo linguaggio risulta ben comprensibile anche al di fuori delle accademie, da chiunque abbia avuto tra le mani una rivista a colori, magari non troppo ben stampata e un po’ “fuori registro”

Un altro artista così affascinato degli effetti del il retino di stampa, tanto da renderlo l’elemento che contraddistingue le sue creazioni, è il pittore Roy Lichtenstein.

M-Maybe – 1965, Roy Lichtenstein

In questo caso siamo agli antipodi per la tecnica utilizzata. Se l’autore precedente realizza la sua opera con un procedimento chimico-meccanico, Roy si muove nella pura tradizione pittorica, ed è questo l’elemento più straordinario del sul lavoro: lui usa il pennello e i puntini del retino li fa uno per uno, pazientemente.

Ma a differenza degli artisti che utilizzano e immagini già esistenti (per esempio Mimmo Rotella, ma anche lo stesso Warhol) Roy non “preleva”, non copia, ma rielabora un’immagine già esistente e i suoi dipinti non sono mai uguali alle fonti da cui sono tratti, tutt’al più ne rappresentano una sintesi.

Questa sintesi viene realizzata a mano, l’uomo diventa quasi una congegno o così vuol farci credere, un congegno da stampa che usa retini grossolani e colori semplici, pieni e brillanti perché più facili da riprodurre, come se si trattasse di una macchina offset primordiale.

Come afferma l’artista: “Perché voglio che appaiano come se non avessi mai corretto nulla, come se mi riuscisse di farli in quel modo da subito. Ma faccio i salti mortali per farli sembrare così. Perché voglio che sembrino una specie di prodotto commerciale”.

Girl and Spray Can – 1964, Roy Lichtenstein