«Il mio mestiere è raccontare storie – scriveva Giorgio Strehler ricordato in questi giorni dal Piccolo Teatro Milano grazie al progetto Strehler100 per i cento anni dalla nascita – devo raccontarle.
Non posso non raccontarle. Le racconto su un palco di legno con altri esseri umani, in mezzo ad oggetti e luci. Se non ci fosse il palco di legno le racconterei per terra, in una piazza, in una strada, in un angolo, al balcone dietro una finestra. Se non ci fossero esseri umani insieme a me le racconterei con pezzi di legno, brandelli di stoffa, carta ritagliata, latta, con qualsiasi cosa».
Dichiarazione di intenti?

Dichiarazione d’amore per il proprio mestiere.
Ma fotolito sa di vecchio, da quasi 30 anni è il mio cruccio.
Il nostro lavoro fa pensare al passato.
“Foto”, è un termine chiaro e “lito” che rimanda ai processi di stampa. C’è stata una doppia rivoluzione digitale che fa sembrare il tutto ancora più datato.

Invece!
A conoscere la storia di questa attività legata alla grafica e al processo chimico-fisico che permette una riproduzione si scopre che noi ci si concentrava sul 2.0 quando mezzo mondo si avvicinava ai computer con window, e il Mac dovevano ancora inventarlo.
Un’attività in anticipo sui tempi moderni che aveva introdotto l’idea del 2.0, l’idea che era necessario essere il più possibile aggiornati alla nuova versione disponibile.

“Serum in quater cul Padula, el Rudulf, el Gaina e peu mi”, Strehler mi sembra già di sentirlo.
Le poche aziende che lavoravano sull’elaborazione grafica hanno cominciato ad aggiornarsi. E tutti cercavano di sapere come poteva evolversi la propria professione.

Sin dal tempo in cui i computer li utilizzavano pochissimi operatori super-esperti e il Mac dovevano ancora inventarlo i nostri operatori sperimentavano le possibilità di tutti gli strumenti a disposizione. Del resto come tutte le grandi invenzioni del ‘900 come la fotografia o il cinema, la fantasia è suggerita da una macchina. L’immaginario passa da un mezzo.

Nel 1980 arrivano i primi scanner elettronici per 150.000 milioni di lire, allora ci si comprava una villa in Liguria.
La tastiera per gestire la scansione delle immagini sembra quella che la Spectre usa nei film di 007. A colpi di Leasing tanti artigiani italiani acquistano questo apparecchio. E cominciano a utilizzarlo. Capiscono le sue potenzialità e i suoi limiti.

plancia di comando di uno scanner – Foto archivio www.cesarecolombo.com

Nel 1985 ecco i primi “sistemi”, che consentivano l’integrazione elettronica del testo e dell’immagine.
In pratica su un video era possibile qualcosa di davvero rivoluzionario: comporre una pagina. Questa volta al costo di 500.000 – 800.000 milioni di lire.

Ma poi arriva lui, re MAC e in pochi anni spazza via tutti, noi per esempio stavamo ancora pagando il leasing del primo sistema ma già lavoravamo con i nuovi computer, una vera beffa. Del costosissimo sistema usavamo solo la bella scrivania in dotazione!

Oggi cosa ci resta? Come dico sempre: siamo tornati alle forbici e al nastro adesivo, cioè strumenti poco costosi che i primi tecnici in camice bianco utilizzavano. Me li ricordo bene!

Il computer Apple, il cosiddetto stato dell’arte, non costa pochissimo, ma un ventesimo confronto ai “sistemi” elettronici anni 80.
Tutto in mano ad abili operatori che sembrano non avere limite. L’unico, forse, è davvero la fantasia. E la capacità di impegnarsi perché sono certo che fissando il tono di una carnagione, il dettaglio di un tessuto o il colore del cielo c’è ancora qualcuno che si chiede se è il massimo che si può avere dai nostri strumenti.

È la migliore qualità disponibile per i nostri clienti o si può andare oltre?
“Mi parli no!”

Carlo Cavicchio