C’è un artista – purtroppo poco conosciuto – che mi ha sempre affascinato per la sua ricerca così strettamente legata al mondo della carta stampata, degli inchiostri, dei colori, tanto da farne la materia prima delle sue opere. Si tratta di Roberto Malquori.
Probabilmente l’ “invisibilità” di Roberto Malquori è dovuta, da una parte, al suo atteggiamento defilato e, dall’altra, al contesto davvero eccezionale – artisticamente parlando – nel quale compie le sue sperimentazioni.
Siamo, infatti, nei primi anni 60, e la pop art esplode con tutta la sua carica rivoluzionaria: Robert Rauschenberg è premiato alla Biennale di Venezia, gli artisti americani dettano una nuova visione e la stampa italiana – anche quella non specializzata – reagisce aprendo un forte dibattito sulla cultura di massa.
Come altri artisti dell’epoca, Malquori non usa pennelli, tavolozze, cavalletti e tubetti di colore; seguendo l’invito di Marcel Duchamps alla decontestualizzazione, parte da un’immagine fotografica in genere recuperata da riviste, e la riporta su un altro supporto, quindi trasforma un prodotto di consumo in arte. Non è l’unico a farlo in quegli anni: Andy Warhol, Richard Hamilton, l’italiano Mimmo Rotella e molti altri si cimentano in tecniche come il collage, il décollage, la serigrafia.
La tecnica di Malquori è però assolutamente personale e sorprendente per semplicità: appoggia un foglio di giornale o rivista direttamente sulla tela e cosparge un solvente sulla parte superiore, con lo scopo di trasferire l’immagine dal frammento di carta al nuovo supporto; in questo modo le scritte appaiono sempre capovolte. Per ogni lavoro ripete l’operazione decine di volte, in base alla composizione e alle immagini che vuole inserire.
Malquori chiamerà questa sua tecnica “décollage”, ma non è da confondere con la stessa definizione data per i manifesti strappati di Mimmo Rotella e Jacques Villeglé. Tutta la sua produzione è realizzata, infatti, con inchiostri tipografici riportati dai giornali, dai settimanali e dalla pubblicità – quindi è in “purissima” quadricromia – e appare debole e slavata proprio a causa della tecnica utilizzata. Debole e slavata si, ma di grande fascino e di notevole impatto.
Conservo con affetto la monografia di Malquori acquistata a Verona nel 2009, quando per la prima volta vidi dal vero i suoi lavori. Mi ricordo perfettamente la sensazione che provai nel perdermi in quelle opere, una sovrapposizione di immagini che per lo più richiamavano la mia infanzia fatta di Fiat 850, di Raffaelle Carrà, di bottigliette di Fanta.
Sicuramente non era la volontà dell’artista quella di ottenere l’effetto nostalgia, rivolgendosi a uno spettatore del futuro.
In generale, le motivazioni che spingevano i pop-artisti erano ben più profonde e alcuni di loro avevano già intuito le grandi potenzialità – anche economiche – della trasformazione delle icone fornite dai mass media in opera artistica. Ma questa è un’altra storia ben al di fuori degli utilizzi della quadricromia…