Il CROMISTA, una figura mitica, un ruolo sottovalutato e un termine desueto.
Una professione un po’ misteriosa, ritenuta erroneamente in via di estinzione, un tecnico da dietro-le-quinte nel mondo delle arti grafiche.
Mi ricordo perfettamente che da bambino ogni volta che qualcuno domandava: “Che lavoro fa tuo padre?”, inciampavo sulle mie stesse spiegazioni come uno scarso ginnasta.
Chi è dunque il CROMISTA? Secondo il “mansionario” ancora vigente negli anni ’70 era “l’operaio che interviene sulle selezioni del colore e provvede al ritocco manuale di materiali sensibili per realizzare matrici per la stampa”.
È una definizione corretta, ma molto restrittiva rispetto alla funzione decisiva di questo professionista, quella cioè di garantire un prodotto di qualità e un colore di standard elevato.
Il cromista ha conoscenze e capacità che ancora non sono ben conosciute e, anzi, con l’avvento dei computer, c’è una diffusa convinzione che siano i software a fare questo lavoro.
C’è pure di peggio, da qualche anno si usa un termine nuovo (più contemporaneo?), rubato al cinema per parlare del lavoro dei cromisti: la celebrata #postproduzione.
Il fatto è che il computer opera, mentre resta all’uomo la facoltà di compiere scelte (coloristiche).